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Tra la Terra e il Cielo

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Enea Allen Chersicola

La sequenza di fotografie che Fabio Costantino Macis presenta con il titolo “Tra la Terra e il Cielo” è un’interpretazione visiva del salto. Volendo essere precisi la presentazione si dovrebbe fermare qui. La densità di significati che accompagnano il gesto del balzo deve essere salvaguardata e protetta dall’elaborazione e dalla spiegazione del contenuto. Più si articola l’architettura concettuale di un tema del genere, più si priva l’immagine della sua profondità. D’altra parte non è nemmeno accettabile liquidare questo percorso con l’ossimoro della “complicata semplicità” del salto, che sebbene sia squisito risulta sempre manierista.

Non trovo utile scrivere quindi delle centinaia di ritualità che su tutto il globo utilizzano il gesto del salto come rito di passaggio, del fatto che anche nella nostra lingua il salto indichi un repentino passaggio da uno stato ad un altro. Preferisco suggerire invece che se Fabio Costantino Macis fosse nato tra gli Ilongot delle Filippine prima degli anni ‘70 sarebbe stato un magistrale tagliatore di teste.

Questa popolazione, nota per la truce ritualità della decapitazione, è stata oggetto di uno degli studi di antropologia più sorprendenti condotti in quel periodo. Se avessimo chiesto ad un anziano Ilongot il motivo per il quale tagliasse le teste, ci avrebbe detto che la rabbia, nata dal dolore, lo spingeva ad uccidere i suoi simili. Il dolore è il concetto cardine su cui ruota il potentissimo lavoro di Macis. In innumerevoli riti di passaggio (o di salto), il dolore e il taglio sono strettamente connessi. Un rito per poter essere significativo deve essere doloroso e deve lasciare un segno. Nella società Banande (Congo) la circoncisione è il rito di passaggio che porta il bambino a diventare uomo; per svariate società il tatuaggio e la scarnificazione sono state parti di ritualità che conducevano il bambino nell’età adulta. In Genesi 3,16 è scritto che il passaggio alla vita attraverso il parto deve avvenire con dolore.

Ciò che a questo punto però è indispensabile chiarire è che non dobbiamo sbagliare nell’identificare il dolore: non significa soffrire che implica sopportazione, non parlo del dispiacere o dell’afflizione che abbattono, non è il tormento proprio della tortura. Il dolore implica, anche nella sua radice etimologica, la capacità di sentire, di percepire il male. Pur essendo uno stadio della sofferenza, del dispiacere, dell’afflizione e del tormento, il dolore è altra cosa. E’ l’apice costruttivo e generativo di un percorso che ci conduce alla crisi, cioè all’atto di separare un modo di essere dall’altro. Il dolore è la potente percezione fisica della crisi che è cambiamento, che è generazione di un nuovo mondo. Questa separazione viene, non solo in Macis ovviamente, sintetizzata nel gesto del salto. E a lui interessa l’attimo di sospensione, quel frammento di eterno che nella memoria del corpo e della mente è il superamento del confine. Una volta a terra non saremo più noi, non sarà più la terra da dove ci siamo staccati.

Ma queste esperienze, che sono proprie di ciascuno e fanno parte dell’intimità, devono essere riconosciute per essere capite. Per questo motivo non serve elaborazione sull’argomento, la profondità di quel gesto è nella capacità di sentimento di chi lo guarda e parla una lingua che solo l’intimo comprende. E’ solo un salto.

 

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Giacomo Pisano

Un invito ad evadere dall’ordinario verso orizzonti interiori differenti, la composizione diviene visione e viceversa.

La Natura è elemento fondamentale del concept: non è una scelta romantica quella di ritrarla in modo così importante ma solo la necessità di trovare uno spazio in cui sia possibile per l’uomo raggiungere la catarsi. Sogni e traumi si liberano nel gesto estatico dell’ascensione e raggiungono una dimensione altra. Allentate le catene mortali i corpi vibrano di dinamismo e lo spirito si astrae per osservare le cose da un altro punto di vista.

Fabio non è un sognatore che spicca il folle volo, ma guarda oltre le cose con sobria moderazione: i protagonisti dei suoi scatti fluttuano a poca distanza dalla terra e dal mare, dagli elementi certi della fisicità a cui si dovrà tornare, senza rifiutarla o allontanarsene eccessivamente e questo li rende straordinari e comuni al tempo stesso. Sono attimi di distacco, abbandono meditativo, frammenti di tempo destinati ad esaurirsi lasciando un’eredità di consapevolezza in cui ci riconosciamo o vorremmo riconoscerci. Sono piccole rinascite in un ciclo vitale i cui vincoli avvertiamo stretti, sono le mille costrizioni che stratificano l’uomo ergendo mura che solo per qualche istante possiamo infrangere raggiungendo piani diversi e ariosi.

La capacità di trasmettere questa sensazione di leggerezza è un dono, cosi come la sensibilità per narrare storie con pochi movimenti e tanto non detto. Il fascino di queste immagini risiede proprio in ciò che non sappiamo, sia esso passato, presente o futuro. Non conosciamo il peso tolto dalle spalle dei protagonisti di questi scatti, ne supponiamo le sofferenze e i dubbi, ne intuiamo le gioie, le aspirazioni.

Viviamo con loro l’entusiasmo dello slancio, certi della possibilità di astrarci dallo spettro delle emozioni terrene per un qualcosa di indefinito e soave, anche se solo per un momento e anche sapendo che la ricaduta è legge inesorabile per l’uomo. Conserviamo il ricordo dell’esperienza e ne nutriamo la memoria per ingannarci quanto basta e cullarci in questa illusione di amniotica felicità.

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